41.
Roma esiste ed esiste anche il Colosseo. Lo scopro all’uscita di una curva, gigantesco come la prua di un transatlantico. Mi guardo intorno, forse per cercare uno sguardo di complicità. Ma nessun altro sull’autobus sembra sorpreso. Tornano a casa dal lavoro. Hanno smesso di notare ciò che è straordinario perché ce l’hanno sempre davanti. Penso che in tutte le città i poeti conservano lo sguardo dei nuovi arrivati. Me lo appunto velocemente sul taccuino. La signora seduta davanti a me, con una busta della spesa tra i piedi, mi vede scrivere e sorride.
C’è un cortile interno, grande e bianco, con centinaia di stendini che non usa più nessuno. Penso che mi piacerebbe vederli pieni di divise di operai appena lavate, l’odore di sapone che ripulisce il pomeriggio. Sembra che sia uno dei tanti cortili così, tutti vuoti, reliquie di un tempo passato. Il nostro amico José ci spiega che Mussolini costruì questo quartiere, la Garbatella, nella periferia di Roma, per dare alloggio a quelle famiglie povere che vivevano nelle baracche della zona del Foro. Oggi, questo quartiere di edifici bassi, cortili interni e appartamenti luminosi non si trova più in periferia e non conserva nulla di umile, e i nipoti di quei poveri stanno vendendo le loro case. Penso al pane nero, di farina non raffinata, che mia madre mangiava da bambina e ora si vende negli alimentari gourmet.
Penso che il cattivo di ieri è il lusso di domani. Penso che tra tutti gli dèi, il Progresso sarà probabilmente quello che ci farà fuori.
Ci sono famiglie romane numerose, rumorose, allegre. C’è una terrazza affacciata sul Tevere. C’è una caraffa di vino economico e vari piatti di spaghetti cacio e pepe. Lucía, la ragazza di José, ci racconta che in questo ristorante popolare a Pasolini fu servita la sua ultima cena. Uscí da qui una notte come questa per incontrare il suo assassino. Dall’altra parte del fiume, un fiume così buio che potrebbe essere un abisso che separa due epoche, c’è un chioschetto con lampadine colorate e una musica allegra, che però risulta triste perché il posto è vuoto. Penso che mi piacerebbe che questo fosse il mio primo ricordo di Roma.
C’è una parete bianca con un crocifisso di legno. C’è una finestra sbarrata che dà su un patio oblungo pieno di fiori, un pavimento di mattonelle di ceramica marroni e brillanti, grandi corridoi dai tetti alti e con echi come di un deposito d’acqua. In questo convento di suore ci sono silenzio e stanze sobrie e pulite che affittano a pochi turisti. C’è una sovraccoperta di cotone ripiegata ai piedi del letto e una donna nuda e addormentata sul letto. Il suo respiro è tranquillo. C’è un ventilatore sul soffitto che gira lentamente, come se invece di spostare l’aria calda la macinasse. C’è un piccolo bagno e la luce del soffitto salta quando l’accendi, un tavolo in fòrmica marrone, come i banchi di scuola, e un uomo che scrive rapidamente tutto quello che succede quando non succede niente, quando la storia finisce e noi continuiamo a vivere. C’è una lampada dalla luce gialla. O potrebbe non essere gialla, però già la vedo come se fosse un ricordo. Sento dei passi nel corridoio, una porta che si chiude. Un orologio da parete segna l’ora in lontananza, in un luogo che non vedrò mai. Lì fuori c’è Roma, come una vacca gravida, che ascolti agitarsi nella stalla alle prime luci dell’alba.
42.
Le tombe sono concentrate su sé stesse. Ciascuna di loro cerca di attirare l’attenzione del visitatore, ma se ti fermi ad ascoltare scopri che già non si ricordano quello che volevano dirti, ricordano solo l’impulso, non la parola. Le mura del cimitero protestante sono coperte di arbusti e pietre, e la luce del sole che riesce ad attraversare gli alberi disegna pozzanghere di luce bianca sulle lapidi. La ghiaia del sentiero fruscia sotto i miei piedi come se fosse neve. Cammino con la stessa concentrazione distratta con cui mi muoverei in una libreria.
Trovo la tomba di John Keats, che morì nel 1821, a piazza di Spagna, a ventisei anni:
Questa tomba
contiene i resti mortali
di un
GIOVANE POETA INGLESE
che
nel suo letto di morte,
col cuore pieno di amarezza,
al malizioso potere dei suoi nemici
dedicò
queste parole affinché fossero incise sulla sua lapide:
Qui giace qualcuno
il cui nome fu scritto sull’acqua.
Mi chiedo perché, se lasciò questi versi, dovettero aggiungere una spiegazione amara che, in realtà, li contraddice. Ricordo che Keats diceva che lui – il poeta – era la spia di Dio
I miei occhi si posano su alcuni nomi conosciuti, come Gramsci, o il figlio di Goethe. Ci sono angeli che piangono con le orbite oculari annerite dalla fuliggine del tempo. Ci sono stelle di David, mezzelune arabe, molti ultimi poemi sulle lapidi. C’è perfino un artista che come epitaffio ha messo la sua firma, ha autografato la sua vita.
Trovo la tomba del poeta G. Corso, che volle che le sue ceneri riposassero vicino a quelle di Keats e Shelley. Che vita strana, penso, nascere a New York nella più assoluta miseria, passare la tua giovinezza in carcere, raggiungere la fama mondiale e finire sotterrato a Roma accanto ai tuoi poeti romantici preferiti. Scrisse anche il suo epitaffio:
Lo spirito
è vita
scorre attraverso
la mia morte
(all’infinito)
come un fiume
che non ha paura
di diventare
mare.
Ricordo che Corso diceva che, siccome non credeva in Dio, lui – il poeta – era la spia di tutta l’umanità.
Trovo Raquel seduta su una panchina di legno verde all’ombra di un muro gonfiato dall’edera
E mi indica dov’è la tomba che cerco. C’è una lapide molto piccola. Su di questa, ciottoli e alcuni fogli con l’inchiostro sbiadito. Note, messaggi e poemi.
Shelley morì un anno dopo Keats, che era venuto in Italia invitato da lui. Naufragò in una tempesta. Ci misero dieci giorni a recuperare il suo corpo e si dice che tra i suoi indumenti trovarono un libro di poesie dell’amico. Anche se dicono pure che, quando cremarono il suo corpo, il petto esplose e il cuore rimase esposto come un fiore.
Prendo il taccuino, lo apro sulla lapide e ricalco con la matita il suo nome. Il taccuino è piccolo e ho bisogno di varie pagine.
Niente di lui si perde
ma il mare lo trasforma
in qualcosa di ricco e strano
COR CORDIUM (CUORE DEI CUORI)
Tiro fuori dalla borsa il libro di poesie italiane e lo apro. Deposito sulla tomba bianca la piuma bianca che il cigno mi aveva dato per lui.
Sono qui. È esattamente qui che mi trovo.
43.
Il filosofo polacco Henryz Elzenberg diceva che ogni scrittore deve scegliere tra raccontare alla sua generazione delle stelle o raccontare alle stelle della sua generazione. Io voglio ascoltare quello che entrambe, le stelle e le generazioni, hanno da raccontarmi.
Niente si perde, dolce essere,
non si perde mai niente.
non si consuma la parola non detta
bensì si sente
si continua ad ascoltare la musica
che interrompe il silenzio
oh l’eco si trova in ogni luogo
è un uccellino che nessuno può chiamare.
LAWRENCE DURREL, «Eco»
44.
Sono l’ispanico che arriva nella capitale del mondo dopo due settimane in nave. Sono il piccolo Ottavio, la mano in quella di suo padre, che lo conduce per la prima volta al Foro. Sono una schiava con una cesta di frutta tra le braccia. Sono un imperatore e sono un legionario che torna a casa dopo vent’anni di guerra. Sono il barbaro che saccheggia il palazzo dell’imperatore. Sono il pastore pieno di croste che mangia un pezzo di formaggio all’ombra di una colonna e che pensa che tutte queste pietre immense devono averle messe lì i demoni adorati dagli antichi. Sono il pellegrino che ha fatto il Cammino Francescano. Sono Luca Pacioli, sono Piero della Francesca, sono Leon Battista Alberti che prende appunti, facendo disegni, studiando i resti di questa civiltà perduta. Sono il papa che fece costruire qui dei giardini. Sono Keats, Byron, Kelly e sono la dama inglese che ha voglia di tornare in Inghilterra perché non sopporta né il caldo, né il cibo. Sono Graves, Auden, Cecil Day-Lewis, Spencer, Campbell, Durrell, sono Goethe e sono Rilke. Sono lo scultore fascista che copia un’aquila; sono il fattore dell’Oregon che mastica una gomma mentre sfila con altre migliaia di soldati per la città appena conquistata. Sono Mussolini che arringa le masse dal balcone di Piazza Venezia. Sono un milionario di New York che beve un drink nel dehors di un bar a Piazza Navona. Sono la scema che proprio ora sale sulla base di una colonna, apre le braccia e aspetta, come se fosse congelata, che il suo fidanzato le scatti una foto.
113.
A casa ho un libriccino molto vecchio, ma di nessun valore, se non sentimentale, dato che era di mio padre, e che prima fu di mia nonna e prima ancora del mio bisnonno. È un piccolo libro religioso del XIX secolo, di meditazione ed esercizi spirituali. È stato scritto da un gesuita assolutamente mediocre che non ebbe mai un’idea propria e tra quelle degli altri copiò le più stupide. Dice, per esempio, di provare a immaginare Dio come un grande giudice con la barba bianca che riceve ministri e segretarie, seduto al suo tavolo, di fronte al quale aspetteremo il nostro turno una volta morti. Per mio padre era molto divertente, era una testimonianza del peggio della religione cattolica, peggio che aveva sperimentato sulla propria pelle da bambino. I preti, era solito dire, «erano stupidi e puntigliosi» e godevano nel descrivere nella maniera più prosaica e dettagliata, come in una fiaba per bambini idioti, le questioni più spirituali. Come ho appena detto, prima che a mio padre, il libriccino era appartenuto a mia nonna Amor, che faceva onore al suo nome ed era la donna più buona che abbia mai conosciuto. Mia nonna era una contadina dallo sguardo franco e verde che poté andare a scuola solo per pochi anni e non lasciò le Asturie fino a che non fu anziana, e solo per scoprire che il resto non era poi questa gran cosa. Mio padre diceva di sua suocera che, anche se praticamente non sapeva scrivere, era la donna più intelligente che avesse conosciuto in vita sua. Per diversi anni, dopo la morte del nonno, dormii nella sua stanza, perché ero un bambino e lei non aveva mai dormito da sola – era passata dal condividere il letto con vari fratelli a condividerlo con suo marito. Ricordo che tutte le notti leggeva qualche libro religioso e poi spegneva la luce, e io la ascoltavo sussurrare il rosario al buio: «Maria-piena-di-grazia-il-Signore-è-con-te-tu-sei-benedetta-fra-le-donne-e—benedetto-è-il-frutto-del-tuo-seno-Gesù», diceva e faceva scorrere un grano del rosario. Era profondamente credente e ancor più tollerante. Nacque in un villaggio di montagna, che il bosco divorò anni fa, e in modo naturale, per quello che aveva visto durante la sua esistenza – e non solo per le due guerre mondiali e per la guerra civile –, era arrivata alla conclusione che la vita era stata creata per essere goduta e che non c’era peccato più grande nei confronti di Dio, il suo creatore, di non godersela. Pregare era ringraziarlo. Mi diceva: «Non ti preoccupare se non preghi: già lo faccio io per te, figliolo, ché sono vecchia». Un bambino doveva essere un bambino. Chi era giovane aveva il dovere di essere giovane. Dato che era immensamente buona, non poteva immaginarsi un Dio che non fosse immensamente buono e viveva in un mondo in cui tutto era bontà. Mia nonna dimostrava la teoria taoista e buddista che da una mente che funziona bene possono venire fuori solo idee buone, allo stesso modo in cui uno specchio pulito riflette in maniera pulita, e, di conseguenza, chi crede che la realtà sia malvagia probabilmente è malvagio.
Il libretto, dicevo. In questo libretto che mia nonna leggeva allo stesso modo in cui un bambino ascolta i discorsi degli adulti, senza prenderlo troppo sul serio, essendo consapevole del fatto che dietro a tutte quelle cose assurde c’è era qualcosa di più, in questo libretto dalla rilegatura di pelle nera logorata come la muta di un serpente, il gesuita idiota ci prepara alla morte facendoci pensare a essa tutto il tempo, siccome dal suo punto di vista questa vita è solo una preparazione assurda a quel momento – «Considera quanto dubbio e incerto è il giorno e l’ora della tua morte e il come e quando verrà, perché normalmente è solita arrivare nel momento in cui l’uomo è più distratto e meno pensa al fatto che la morte deve arrivare, dato che la Divina Provvidenza ordina così per obbligarlo a stare sempre all’erta» – Chiaramente, qualcosa del genere può pensarlo solo una mente che funziona molto male. Tutte le buone idee, come l’idealismo platonico o l’amore di Gesù Cristo, un giorno o l’altro le prenderà qualcuno malvagio e le imbalsamerà per imporle agli altri, ma, soprattutto, per imporle a sé stesso. Obbligare gli altri è il miglior modo per obbligare noi stessi.
Non so bene perché mi è venuta voglia di ricordare questo libro. Forse perché seduto sotto questo albero, che a sua volta si trova sotto un cielo abbagliante, all’estremità di un’isola che ha visto arrivare e passare leggi inenarrabili che pretendevano di essere eterne, sotto questo albero, di fronte a un mare che vibra come se Icaro ci fosse appena affogato dentro e non importasse a nessuno, con una brezza che mi accarezza il volto, forse credo nella vita così com’è: una storia che ci raccontiamo l’un l’altro, la preghiera al buio di una donna anziana e di buon cuore
114.
C’è un gruppo di adolescenti che parlano gridando di fronte a un bunker eroso come un molare, mezzo sepolto nella sabbia. Le finestrelle, da cui un tempo spuntavano i cannoni, li contemplano muti, piene di invidia. La giovinezza illuminata dal sole è eterna, molto di più di quanto lo sia la più lunga delle guerre. Questi ragazzi sono gli stessi di mille anni fa. Sono più solidi della pietra.
Guardo dentro. Ci sono alcune bottiglie di alcolici vuote, c’è della spazzatura, ci sono scritte sui muri, ci sono preservativi usati che assomigliano a meduse morte. L’acqua ha spaccato la base dello spesso muro di granito ed entra come aria per mezzo di una tracheotomia.
115.
C’è un tempio dorico che dà su un precipizio. Le sue colonne sono le zampe di un bebè paffuto. Non ha il soffitto e sembra messo lì per sorreggere il cielo.
116.
Leggo che quando Lucia, la figlia di James Joyce, fu internata in un ospedale psichiatrico e le fu diagnosticata la schizofrenia, lo psichiatra Carl Jung affermò che i due, padre e figlia, erano uguali e che sentivano allo stesso modo: i due vivevano nello stesso fiume. Secondo lui, l’unica differenza era che il padre sapeva nuotare sott’acqua, mentre lei affogava irrimediabilmente.
La luce del sole è così intensa che sembra scomporsi in frammenti di vetro. Un ragazzo molto grasso e con i capelli lunghi, che fa amicizia con tutte le ragazze perché è molto spiritoso, mette canzoni brutte e alcune persone ballano nella piscina, che è affollata, nonostante si trovi a pochi metri dalla spiaggia. È iniziata l’alta stagione e il tranquillo campeggio di viaggiatori di passaggio si è trasformato da un giorno all’altro in un paese con una popolazione fissa che si ripresenta un’estate dopo l’altra. Intere famiglie, con bambini e figli adolescenti, si sono appropriate del posto e un esercito di animatori ha iniziato a lavorare per intrattenerli.
Uno si intrattiene quando aspetta qualcosa o quando vuole sviare la sua attenzione da qualcosa di molto doloroso. Ma da cosa vogliono distrarsi queste persone? Qual è il dolore al quale non vogliono pensare?
Quand’ero bambino e non potevo evitare di giocare ai videogiochi per ore, mi sentivo sporco, come se avessi commesso un peccato. La stessa cosa mi succede da adulto quando leggo uno di quei romanzi lunghi e divertenti che conquistano le classifiche dei titoli più venduti. Posso ammirare com’è stato costruito, sono in grado di riconoscere la maestria dello scrittore – non ho problemi ad ammettere che ci sono bestseller che sono capolavori della struttura narrativa –, ma dopo qualche ora che leggo, lo chiudo con la sensazione di aver sprecato il mio tempo. Quando ci intratteniamo, la vita passa in un lampo e non lascia traccia. Non voglio alcuna distrazione. Voglio libri che, come la poesia, non mi portino via dalla mia realtà, ma che invece mi ci facciano immergere ancora di più. Libri che facciano crescere e moltiplicarsi le radici che affondo nella materia. Libri come compagni di viaggio. Libri dai quali sollevare lo sguardo un istante. Libri che siano come punti panoramici da cui vedere il paesaggio dell’esistenza.
Il volume della musica è un po’ più basso, ma solo perché una ragazza dà istruzioni al microfono. Sta sul bordo della grande piscina, sotto il sole svigorito. Indossa la parte superiore di un bikini e un pantaloncino sportivo. Si accovaccia, estende le braccia, muove le gambe al ritmo della musica come un bambolotto. In acqua, il suo pubblico, principalmente signore avanti con l’età, cerca di imitarla. Le diverte la loro stessa goffaggine.
Un ragazzo di quindici anni con paralisi cerebrale cammina lentamente sottobraccio a sua madre. Quando lei vuole andare in piscina, passando accanto a un gruppo di adolescenti sdraiati intorno alle ragazze più belle, la ferma. Non sento quello che dice, ma i suoi occhi – intelligenti, svegli, dentro quel corpo distorto – guardano in direzione di quello spettacolo di vita incosciente del miracolo dei loro corpi distesi al sole. La madre sorride, comprensiva, e desiste. Li vedo andarsene.
117.
Quello scrittore irrimediabilmente goffo che scrive le nostre vite senza sapere perché oggi ha avuto un’ispirazione improvvisa. Mi ero allontanato un po’ dalla spiaggia, abbastanza per vedere da lontano il formicaio della piscina, e avevo fatto il morto per un tempo sufficiente da provare la sensazione che il cielo fosse la terra. Mi sono sdraiato sul lettino e ho aperto l’antologia di Ezra Pound in una pagina a caso.
Il libro è di mio padre – è datato 1981: ero un bebè quando lo aveva comprato – e al margine della poesia c’è un’annotazione a matita fatta da lui. È un’abitudine, quella di prendere note ai margini, che ho ereditato da lui e solitamente si tratta di commenti o idee che riguardano la lettura. In questo caso però c’era scritto: «Vedere il corso di nuoto per Astur».
Sento qualcosa di simile a quando, a vent’anni, andai a vivere a Madrid. Rivivo una sera nella terrazza dell’appartamento nel quartiere di Tetuán, dove un’amica di mia sorella mi stava ospitando fino a quando non avessi trovato un posto mio. Più che una terrazza, era un cortile interno con tre pareti, che si apriva su una stradina e al quale si accedeva dalla finestra della cucina. Fumavo una sigaretta dopo aver chiamato al telefono la mia famiglia e la mia ragazza, che studiava Belle Arti a Pontevedra. Avevo detto loro che stavo molto bene e che Madrid mi piaceva moltissimo, ma in quel momento pensavo che non fosse vero. Madrid, quella Madrid di quartiere accogliente, che odorava di frittura, polvere e detersivo da discount e cielo arancione che osservavo dalla terrazza mi nauseava, mi dava il capogiro come se mi trovassi sull’orlo di un precipizio. Vivevo con i nervi a fior di pelle, fumando una sigaretta dopo l’altra, sul punto di esplodere, sentivo come le suole delle mie scarpe si consumavano sotto i miei piedi. Madrid mi sembrava un braccio preparato per una sfida a braccio di ferro, uno schiaffo o un abbraccio troppo forte.
Quella Madrid che imparai ad amare ha smesso di esistere anni fa, o magari sono io che non esisto più, non lo so, ma sono di nuovo su una terrazza dalle pareti lisce, anche se questa volta si affaccia su una piazza piena di automobili, luci e tavolini che sembra siano stati disposti così da un tornado. Di nuovo il cielo è arancione, di nuovo il vento è caldo e trasporta suoni di clacson, risate e pianti e di nuovo sento la nausea che può provocare solo la libertà autentica: quella che ti permette di vivere o di ucciderti come ti pare. Qui a Palermo, come in quella Madrid, tutto è ancora da fare e nessuno sembra aver fretta di finire. La festa è festa perché nessuno si ricorda com’è iniziata.
La bottiglia che sono uscito a comprare prima – c’era una strada stretta, adornata con ghirlande di lampadine colorate, come una romeria, c’erano visi in penombra, placidi come uccelli nascosti nel fogliame – è quasi vuota e Raquel dorme nella stanza da letto già da ore.
Nonostante siano le quattro di mattina di un martedì, il vociare della città non si è calmato e i gabbiani continuano a strillare.
1 Festa cattolica diffusa in Spagna e Sud America che consiste in un pellegrinaggio verso un santuario, eremo, un romito della Vergine o di un santo patrono situato in area rurale o di montagna. La parola proviene dallo spagnolo romero, dal latino romaeus, che è il nome che identifica i pellegrini che vanno a Roma e per estensione qualsiasi santuario.
Traduzione di Marco Gigliotti
Estratto di La aurora cuando surge (Acantilado, 2022)