1.
Naruto non tornava al Villaggio della Foglia da moltissimo tempo.
Erano passati quindici anni esatti da quando si era trasferito ad Akaigake, la seconda città più grande del Paese della Terra. Se gli avessero chiesto di descrivere Akaigake con una sola immagine, avrebbe detto che assomigliava a un formicaio straripante di saké. Oppure a una famiglia di monumenti funebri issata ai confini del deserto.
Quel giorno era il dieci di ottobre, come il giorno in cui era nato, un altro dieci di ottobre, un giorno maledetto.
Quella mattina si ritrovò a pensare a come la pioggia sporcava le pareti di vetro del suo ufficio, le faceva apparire sudicie. Gli dava fastidio, quella pioggia, come se fosse una macchia impressa sulla sua retina. Il vento la trasportava con violenza contro le lastre trasparenti dell’edificio, ma all’interno non penetrava alcun rumore: ogni suono veniva attutito, la coibentazione riduceva drasticamente il volume della realtà. La macchia sulla sua retina gli fece venire in mente la parola sharingan. Chissà da dov’era saltata fuori: sharingan. Sha-rin-gan. Quelle sillabe suonavano così familiari, tuttavia non riusciva a ricordarne il significato. Quasi fosse una parola sognata, una di quelle che appena svegli ci si appunta con frenesia, per paura di perderla, ma che alla fine non dischiude alcun tesoro.
Naruto ripeté ancora nella sua testa la parola sharingan e vide tre virgole, tre gocce ricurve e nere. Tomoe, ecco qual era il loro nome, si trattava di motivi astratti piuttosto comuni negli emblemi delle antiche famiglie. Questi tre tomoe circondavano la pupilla di un’iride innaturalmente rossa. Non semplicemente arrossata, ma traboccante invece di un rosso sangue di drago. Che immagine bizzarra, pensò Naruto. Poi, senza connessione apparente, visualizzò il volto del suo migliore amico, con una limpidezza con cui non era mai riuscito a visualizzare il volto di nessuno: il coprifronte col simbolo del loro villaggio che sbucava tra ciuffi dai riflessi bluastri; il mento a punta sfiorato dal collo delle strane casacche che il suo amico indossava da ragazzino, casacche blu come la mezzanotte; la tristezza che lo sguardo di Sasuke, questo era il nome del suo migliore amico, non aveva mai perso, lo sguardo di chi osserva gli altri da un fondale marino o dall’oscurità di un pozzo che tutti hanno dimenticato.
«È il dieci di ottobre», pensò Naruto, «e il clima qui è un po’…»
«Il clima qui è un po’…», ripeté tra sé e sé, cercando di trovare un aggettivo che descrivesse adeguatamente il clima di Akaigake, ma i suoi pensieri giravano a vuoto, le parole nella sua testa si interrompevano sempre in quel punto e non c’era verso di proseguire.
Il cielo era grigio e blu tempesta e avvolgeva l’ufficio, abbracciava le due pareti trasparenti che davano sulla strada, stringeva l’intero edificio di vetro. A Naruto venne un senso di nausea: si sentiva esposto alla furia degli elementi, come se si trovasse sul ponte scoperto di una nave; il cielo rabbuiato si trasformò nell’acqua tumultuosa dell’oceano, l’oceano come doveva essere in una giornata d’inverno a largo di qualche ventoso paese del nord, e il getto costante della pioggia assaliva l’imbarcazione di vetro con l’impeto delle onde che finiscono con l’allagare le stive.
Naruto si guardò intorno: l’ufficio era spazioso, molto spazioso, forse troppo. Spazioso e muto. Naruto guardava la vetrata esterna che si affacciava su Viale delle Foglie Cadenti e sul parco al di là del viale, un parco spoglio e invaso dal cemento, che lui chiamava Parco degli Orsetti Lavatori, perché una ragazza dell’ufficio legale lo aveva chiamato così un giorno e a lui era sembrato un nome buffo e stranamente appropriato.
Forse la ragazza l’aveva chiamato così perché c’erano delle fontane in cemento – come in cemento erano le panchine, una rampa per gli skate, e delle piccole statue di gnomi – , tutte di forma diversa, ma con in comune dei piani inclinati a scanalature, che davano l’impressione di essere grandi lavatoi.
Si erano ritrovati a parlare di quel parco una mattina che lei gli aveva consegnato una liberatoria. Poi ci erano stati diverse volte a pranzo, loro due soli. Gli era venuto spontaneo, come se andare a mangiare insieme fosse il naturale proseguimento della loro conversazione.
«Allora domani andiamo a pranzare lì», aveva detto la ragazza, prima di andarsene. Come se Naruto fosse un suo vecchio amico o come se quello fosse l’inizio di una storia d’amore adolescenziale, non l’incontro tra due colleghi.
Il modo in cui sorrideva la ragazza, le cuffie col pelo rosa e i capelli fucsia del Troll attaccato alla cerniera del suo Invicta, la canzone che cantava (Little Things dei Bush, il gruppo dell’ex di Gwen Stefani), “we are boss at denial, but best at forget” cantava con gli occhi chiusi, come se non ci fosse nessuno nel parco, nessuno a parte loro, e prendeva la mano di Naruto e gliela stringeva.
La prima volta si erano portati delle polpette di riso comprate in una bottega poco distante, che entrambi volevano provare da diverso tempo. Per i pranzi successivi si erano organizzati diversamente: portavano da casa ciascuno un tupperware contenente una pietanza tipica del proprio villaggio d’origine. Naruto la seconda volta aveva portato il miso chashu ramen. Avevano provato a coinvolgere dei colleghi, ma nessun altro li aveva voluti accompagnare, come se ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato in quel parco o quantomeno nel voler trascorrerci del tempo. Per Naruto il rifiuto dei colleghi era stato un sollievo.
La ragazza dell’ufficio legale non lavorava più lì adesso, se n’era andata, forse per seguire il suo fidanzato in un’altra città. No, non poteva essere quella la ragione, riflettendoci Naruto si era ricordato che, quando era successo, la ragazza aveva già rotto col fidanzato. Si era stancata del lavoro, ecco, era per quello: aveva detto che il lavoro la stava inaridendo e che tra breve non ci sarebbe stato ritorno. Aveva usato proprio quel verbo, inaridire, e quell’espressione, non ci sarebbe stato ritorno. E invece no, c’era qualcosa che non tornava. Si era confuso di nuovo, non era nemmeno allora che era andata via, in realtà, lei e Naruto, si erano allontanati già prima che la ragazza lasciasse la compagnia. Chissà qual era la ragione per cui avevano smesso di parlarsi. Forse li aveva allontanati uno sguardo di biasimo di troppo o forse un rifiuto all’ennesimo invito. Lei aveva forse smesso di trovare piacevole la sua compagnia? Lui aveva insistito troppo per rivederla a pranzo o per incontrarla fuori dall’ufficio? Quello che era certo era che, quando lei si era licenziata, già non si frequentavano da un po’. Qualcuno gli aveva poi detto che la ragazza aveva chiesto di lui, oppure gli aveva detto che la ragazza aveva confessato di rimpiangere di non aver fatto nulla per salvare il loro rapporto, oppure la ragazza, attraverso quel qualcuno, si era limitata a mandare i suoi saluti – per una sorta di obbligo morale, più che per affetto –, ma Naruto si era immaginato che lei rimpiangesse la fine della loro amicizia almeno quanto la rimpiangeva lui.
«Fa freddo qui. E il clima è così…», si diceva Naruto, come se il clima e il freddo fossero due cose separate, perché sí, il clima là ad Akaigake era freddo in quei giorni, ma il freddo a cui si riferiva Naruto era una sensazione che più che la pelle riguardava le interiora, un graffio allo stomaco mentre si guardava intorno, nel suo ufficio, e intorno non c’era nessuno; mentre guardava le pareti che lo separavano dagli altri uffici, anch’esse di vetro, ma opache, che impedivano di vedere e di essere visti; mentre tutto intorno era muto e l’apparizione di un collega, che doveva consegnargli un documento, si confondeva col violento getto obliquo della pioggia, due processi ugualmente meccanici ed estranianti. Ma poi aveva smesso di piovere e, fuori dal palazzo di vetro dell’agenzia, in strada, un certo calore sembrava emergere dal catrame. Catrame che le betoniere avevano steso non più tardi di quell’estate, quando le arterie di Akaigake erano meno trafficate, ma non svuotate come un tempo, un tempo in cui d’estate si smetteva tutti di lavorare e si abbandonava la città per riempire i villaggi di pescatori o le località termali. Naruto ne aveva solo sentito parlare, o forse aveva vissuto un’estate del genere, ma una sola, la sua prima estate ad Akaigake.
Era venerdì sera e, nonostante l’insistenza dei colleghi, Naruto aveva deciso di non fermarsi a bere con loro.
Il buio che incontrò quando aprì la porta dell’appartamento lo prese alla sprovvista: si ricordò soltanto in quel momento di essere rimasto solo, che Laura se n’era andata, o meglio, che lui l’aveva costretta ad andare via.
Ebbe la sensazione di essere finito nel posto sbagliato, un posto vuoto e silenzioso dove non avrebbe trovato nulla di ciò di cui aveva bisogno.
Il buio che incontrò quando aprì la porta dell’appartamento lo riportò al passato: si ricordò quel periodo, che sembrava appartenere a un’altra vita, in cui c’era sempre una minaccia nascosta nell’ombra: l’orecchio teso a cogliere una vibrazione dell’aria, una flebile voce in lontananza; ricordò il fluire uniforme del fiume, la ricerca di brevi interruzioni del gorgoglio che potessero tradire la presenza del nemico. E ne ebbe nostalgia.
Rivide come bagliori rapidi il Paese del Fuoco, la Foresta della Morte. Era il pericolo costante a farlo sentire vivo? O forse era solo che a quel tempo, nonostante tutto, si era sentito meno solo?
Le memorie del Villaggio della Foglia cominciavano a essere sfuocate: sfuocato il presente, sfuocato il passato. Ma il sentimento del passato era più vivido, era un sogno più vivido. A volte Naruto aveva questa sensazione, di trovarsi impantanato in un sogno e di non sapere come tirarsene fuori, di aver perso la strada di casa.
Il Distretto dei Mercati della città di Akaigake di sera sprofondava nel silenzio, un silenzio diverso da quello dei boschi della sua infanzia, un silenzio che dopo tanti anni Naruto ancora non riusciva a sopportare. Si tolse le scarpe. Le spinse con il piede sotto al ripiano di vetro su cui era poggiato il modem. Il tutto senza guardare, sempre al buio. Solo dopo aver disfatto il nodo della cravatta, accese la luce.
Si era quasi dimenticato qual era il sogno che aveva da bambino, e poi ancora da adolescente, il sogno che aveva coltivato fino a quando quella cosa, quella cosa il cui nome ora sempre più spesso gli scivolava dalle labbra prima che lo potesse pronunciare, era sparita dalle sue giornate.
Piegò i pantaloni sul letto con precisione, ne sovrappose i bordi perfettamente. Li appese a una gruccia e li infilò nell’armadio, accanto alla camicia bianca e alla giacca del completo blu. Da una pila di tute arancioni, identiche tra loro, ne tirò fuori una e la indossò. Entrò nel bagno per lavare le mani e si accarezzò i capelli, il cui giallo innaturale più di una volta lo aveva messo in imbarazzo. Prese da una credenza a muro una pentola pulita, ma la cui superfice interna era intrisa di amido di patate, e la riempì di acqua fredda: Laura lo rimproverava quando usava l’acqua calda per risparmiare tempo. Naruto piegò il bordo della pentola, pronto a versare nel lavandino l’acqua fredda per sostituirla con quella calda, ma poi si disse che, se non c’era più nessuno che lo obbligasse a usare l’acqua fredda, non c’era nemmeno più un motivo per fare le cose di fretta. Naruto tornò verso la credenza a muro, soppesò la quantità di riso basmati rimasto nella scatola senza nemmeno guardarci dentro, semplicemente scuotendola, e poi optò per degli spaghetti integrali; prese anche una latta di polpa di pomodoro e, reggendo tutto tra l’avambraccio sinistro e il petto, aprì la porta del frigo e tirò fuori dal cassettino superiore un aglio mezzo marcio. Mise a soffriggere l’aglio con un filo d’olio in un rondò d’acciaio: uno spicchio intero e un altro tagliato a metà. Solo dopo aver versato la polpa di pomodoro nel rondò, si rese conto che il sugo sarebbe avanzato: era la quantità che usava abitualmente per due persone. Laura non c’era ormai da qualche giorno, ma non sembrava che qualcosa fosse cambiato, lui non si sentiva più solo di prima, cioè, si sentiva terribilmente solo, proprio come quando Laura era ancora lì. Era soltanto adesso però che se ne rendeva conto, o meglio, che riusciva a esprimere a parole questa sensazione: lui, anche con Laura, si sentiva terribilmente solo. L’acqua iniziò a bollire, ma il sugo era ancora troppo acquoso, quindi abbassò la fiamma della pentola e andò alla ricerca della cassa bluetooth che teneva sullo stesso ripiano del modem, all’ingresso dell’appartamento. Mise la cassa sul tavolo della cucina, accanto a una tovaglietta da colazione che avrebbe usato per cenare. Armeggiò un po’ con il suo Samsung Galaxy e dalla cassa partì Aspettando il sole di Neffa. Mentre versava la pasta, cercò di ricordarsi perché Laura ci tenesse al fatto che l’acqua fosse fredda prima di metterla a bollire: era qualcosa che aveva a che fare con il cloro o con l’amido, o con tutti e due, in ogni caso era meglio usare l’acqua fredda, il perché non aveva importanza; si chiese poi, perché lui, invece, avesse continuato a lungo a usare l’acqua calda, anche dopo che avevano iniziato a vivere insieme. La consistenza del sugo ora sembrava perfetta, lo assaggiò e si pentì di non essersi fermato al supermercato per comprare il basilico: il sugo era già buonissimo così, ma gli era venuta improvvisamente voglia di basilico, della freschezza delle sue foglie; l’avrebbe comprato all’indomani, si disse. Mangiò la pasta molto lentamente, con la musica ancora in sottofondo: c’era adesso la voce di Lucio Battisti che cantava La canzone del sole. Gli venne in mente il perché dell’acqua calda, era un’abitudine di quando era ancora single che era causata dall’incapacità di controllare la fame: quando ancora viveva da solo, appena superava la soglia del suo appartamento, era assalito da un appetito incontrollabile; era evidente, cercava di riempire col cibo un vuoto affettivo e questo vuoto si insinuava nel suo stomaco nel momento stesso in cui metteva piede in casa e avvertiva con più forza di essere solo, di essere diverso da i suoi colleghi che avevano una famiglia, di non avere nessuno. Quando aveva conosciuto Laura e, ancora di più, quando lei aveva traslocato da lui, due cose erano scomparse: la fame incontrollabile e le notti alcoliche e senza fine. Ora, o almeno fino a qualche giorno prima, quando rientrava nell’appartamento, invece di correre in cucina, correva a baciare Laura sul collo, poi su una guancia, poi sulle labbra, come se fosse un rituale; durante i primi tempi della convivenza lei lo rimproverava perché non si prendeva nemmeno il tempo per togliere le scarpe, prima di andarle incontro, e così portava i germi in casa; ma poi si era rassegnata, sforzandosi di credere che quella frenesia fosse una prova dell’amore di lui. Le notti alcoliche e senza fine erano l’altro elemento della vita di Naruto che era sparito con l’arrivo di Laura, notti che gli avevano svelato il dolore profondo che si nascondeva dietro alle gesta mondane del maestro Jiraiya, gesta che Naruto non avrebbe mai pensato di emulare prima di Akaigake.
Non che Naruto non si fosse sentito solo fin da bambino, anzi, la solitudine era stata l’unica compagna fedele della sua infanzia. Cresciuto senza genitori, veniva evitato da quasi tutti gli abitanti di Konoha, senza che riuscisse a comprenderne il perché: la sua era una solitudine straziante, straziante, ma diversa da quella che provava adesso, mentre mangiava gli spaghetti integrali con movimenti ripetuti e automatici e lo sguardo che si perdeva a mezz’aria, come se non avesse né la forza, né la volontà di aggrapparsi a qualcosa. Naruto nei giorni lontani del Villaggio della Foglia si svegliava ogni mattina pronto a combattere, a ogni risveglio custodiva nel cuore una speranza. E in un secondo momento, lì, nel Villaggio Nascosto dalla Foglia, aveva conosciuto l’amicizia e la guerra, e la camerateria; era diventato parte di qualcosa di autentico, di un gruppo di persone che funzionava come un unico organismo vivente, non come l’azienda per cui lavorava ad Akaigake, dove il trionfo di uno era la conseguenza della caduta di un altro. Nella solitudine del Naruto adulto, del Naruto di quella sera che fissava il piatto vuoto senza nemmeno rendersi conto di tenere ancora in mano la forchetta, non c’era speranza, non c’era nulla che assomigliasse a un futuro. Naruto sentì il lamento di un animale, si voltò di scatto e fece un salto all’indietro, come se l’animale fosse un pericoloso nemico e si trovasse all’interno della cucina. L’animale si lamentò di nuovo e Naruto si rilassò: e a tornare a casa non gli bastassero un paio di bicchieri di saké e si rispose che non voleva essere solo: sapeva che se fosse rientrato a casa, ad aspettarlo non ci sarebbe stato nessuno.
2.
Stanotte ho sognato che era scoppiata la Terza guerra mondiale. Era colpa della Russia o almeno così dicevano la Stampa e la tv di stato. In realtà gli Stati Uniti erano stati i primi ad attaccare, con una scusa assurda, tipo che dovevano vendicarsi di quello che Ivan Drago aveva fatto ad Apollo Creed. Sergej Lavrov aveva risposto che Rocky IV era solo un film, tra l’altro girato dagli americani, e che quindi, caso mai, avrebbero dovuto essere i russi a offendersi per come erano stati ritratti. Ma ammettiamo pure l’assurda ipotesi che si tratti di una storia vera e non di un film, aveva proseguito Lavrov, anche in quel caso, non ci ha già pensato Rocky Balboa a vendicarsi di Ivan Drago e non è stata forse la vittoria di Rocky a far crollare il comunismo?
La presidente Nimarata Nikki Randhawa Haley aveva detto che la risposta di Lavrov non faceva altro che evidenziare il razzismo del governo russo: se Apollo Creed fosse stato bianco non si sarebbero mai permessi di rispondere così, ma d’altronde che i russi fossero razzisti era evidente, mentre negli Stati Uniti lei era già la seconda presidente di colore, dopo Obama, e perdipiù era una donna; in Russia non avevano mai avuto nemmeno un presidente che non fosse stato un maschio bianco etero. Come faceva a essere responsabile dello scoppio di una guerra una democrazia così democratica da eleggere come presidente una figlia di immigrati, donna e di colore? Era impossibile, aveva detto Nimarata Nikki Randhawa Haley, ed era scoppiata a ridere, e l’inviato della Rai che aveva introdotto il collegamento allo Studio Ovale era scoppiato a ridere. L’inviato era Fedez.
Era rimasto in Italia un unico videoblogger pacifista, che girava i suoi video indossando un passamontagna e distorcendo la propria voce, e si chiedeva come si potessero uccidere 500.000 persone per vendicare la morte del personaggio di un film del 1987 e i commenti sotto il suo video si dividevano in due categorie: i commenti che lo accusavano di essere razzista e quelli che dicevano che in Russia c’era la dittatura e i Paesi civili stavano solo cercando di esportare la democrazia e i 500.000 civili morti (e comunque bisognava verificare le cifre perché della Russia certo non ci si poteva fidare e le organizzazioni umanitarie preposte alla verifica di tali numeri erano notoriamente piene di filoputiniani) avrebbero dovuto ringraziare gli Stati Uniti d’America e alla fine se lo meritavano perché avevano eletto un dittatore che se non fosse stato fermato avrebbe conquistato tutto il pianeta e forse anche la Luna e Marte. Il blogger con una logica di cui, nel sogno, cominciavo a dubitare, aveva provocatoriamente chiesto come fosse possibile votare un dittatore: o Putin era stato eletto tramite delle votazioni regolari e quindi si trattava di una democrazia oppure aveva forzato l’esito del voto e quindi sì, si trattava di una dittatura, ma a quel punto i poveri cittadini russi non sarebbero stati responsabili della sua elezione.
Al videoblogger pacifista, che non aveva un nome, ma veniva chiamato da tutti i media e i politici italiani Pacifinto, aveva replicato la direttrice della Stampa, Chiara Ferragni. Il suo editoriale era intitolato “Certo che si può scegliere un dittatore, caro Pacifinto” e spiegava in dettaglio come la dittatura fosse solo la personificazione di una malvagità diffusa nel popolo, facendo prima un excursus sulla storia della malvagità russa che includeva il cinema, la pittura e le lettere, anche Doestoevskij, che era il più malvagio di tutti, ma aveva il pregio di aver rappresentato meglio di tutti il marciume depositato sul fondo dell’animo russo, non quello umano in generale, solo quello russo o comunque l’animo delle popolazioni che non erano costituzionalmente portate alla democrazia, ma alla dittatura e al terrorismo.
In ogni caso, a un certo punto era apparso sullo schermo incrinato del mio Samsung un motore di ricerca russo, che si collegava automaticamente a un video nazionalista in cui il delfino di Putin tendeva il braccio destro e dichiarava in inglese la superiorità dell’Impero russo. Provavo a chiudere il browser, ma senza successo e così mi decidevo ad andare a dormire e mi ripromettevo di risolvere il problema la mattina successiva, perché quella sera avevo offerto da bere a una scrittrice che era venuta a Roma per ritirare un premio, e alla fine avevamo bevuto troppo e lei si era già addormentata sul letto mentre a me sarebbe spettato il divano.
La mattina dopo nevicava e le strade erano piene di neve e dei ragazzi del mio paese erano venuti a Roma, non avevo capito bene se per una festa o perché desideravano essere colpiti prima di tutti dai missili che la Russia aveva minacciato di lanciare sulla capitale, e li avevo incontrati nel centro commerciale (era un’area commerciale in realtà, piccoli negozi uno dietro l’altro, ora circondati dalla neve, il particolare meno realistico di questo sogno) dove avevo intenzione di riparare il telefono. Io indossavo un balaclava termico, ma mi avevano riconosciuto subito, non credo per il mio passo felpato, dato che essendo a Roma non avevo scarpe adatte alla neve, fatto sta che avevamo chiacchierato e mi ero dimenticato di riparare il telefono e nessuno era preoccupato per la guerra perché la gente era così stanca di discutere e di cercare di capire il mondo che non vedeva l’ora che fosse finita, non vedeva l’ora di smettere di esistere.
Tornavo a casa, riaccendevo il Samsung e il browser barra virus russo era sparito e Pacifinto aveva pubblicato un video in cui diceva, ok, il delfino di Putin parlava in inglese per farsi capire dal nemico, ma perché cazzo il nome del browser e le didascalie del video erano in serbo e non in russo, non sarà che è stato l’Occidente a… e poi si era bloccato e aveva detto: «Sapete che?, ‘Sti cazzi, andate a morì ammazzati».
Poi la scrittrice che aveva vinto un premio mi aveva detto che avrebbe voluto mangiare da Studio, che era un ristorante che occupava quella che era stata la casa paterna di una scrittrice che era un ibrido tra Elsa Morante, Sibilla Aleramo e Natalia Ginzburg, e che si chiamava Martina Tavernello, ma poi aveva detto: «Anzi no, andiamo da Gatto che è la prima osteria-bruncheria di Roma», e io non tanto per la parola bruncheria, ma perché non mi andava di andare in monopattino fino a Trastevere, le avevo detto che forse era meglio Studio e le avevo chiesto dove si trovasse e lei aveva risposto: «Qua a due passi» e la sua voce era delusa, non per la ragione che credevo, ma perché da Studio avevano dei vini buonissimi e lei non avrebbe potuto bere dato che ancora non si era ripresa dalla sera prima e voleva essere in forma per la premiazione di quella sera.
3.
Il genio non è altro che l’infanzia ritrovata grazie a un atto di volontà, diceva Baudelaire, mentre indossava un altro brutto capotto e cercava un belga tra la folla sui cui riversare tutto il suo disprezzo. Noi sappiamo già tutto, ancora prima di nascere, poi col passare degli anni dimentichiamo; nell’adolescenza e nella giovinezza riaffiorano alcuni ricordi, ma come se fossero frammenti di un sogno: per un attimo sono abbaglianti e quello dopo non sono mai esistiti. Non dobbiamo imparare niente, dobbiamo solo ricordare, non esiste fuori da noi nulla che non sia già dentro di noi. Questo è quello che penso mentre salgo le scale della palazzina dove si trova il mio appartamento (mio perché ci vivo da solo, ma in realtà l’appartamento è di mia madre), un appartamento normalissimo, ma con un parquet traditore, pieno di righe e macchie: un giorno si è allagato (colpa della rottura di un galleggiante), ha resistito, senza disincastrarsi, né gonfiarsi, ma da allora non è stato più lo stesso. Il parquet, imprudentemente, ricopre anche il pavimento della cucina e del bagno, dovrebbe rendere la casa più calda, visivamente più calda, dovrebbe essere una suggestione. Alcune mattine mi sembra di essere stato assorbito dal mio appartamento, dal divano di pelle gialla in soggiorno, dalla credenza carta da zucchero e panna della cucina, dalla libreria in compensato della vecchia stanza di mia madre, dove lei è cresciuta e ha dormito fino a quando si è sposata e ha abbandonato Roma per tornare al paese d’origine di suo padre, contro la volontà di suo padre, che nel frattempo… Di mio nonno ho visto poche foto, una che capeggiava su mobili sempre diversi, in base a come si evolveva l’arredamento – e la geografia – del salone del piano terreno della casa del paese, in montagna, quella dove sono cresciuto io, senza sapere poi granché di mio nonno, a parte il fatto che indossava ogni giorno giacca e cravatta – nella foto aveva un abito chiaro, la cravatta scura, le braccia dietro la schiena –, mio nonno era stato prigioniero di guerra, in India, era un’altra informazione che avevo su di lui, ma nessuno sapeva dirmi perché proprio in India, nessuno conosceva la geografia di quella guerra o della vita di mio nonno, e tuttora il suo imprigionamento rimane un mistero, si sa solo che una volta liberato e tornato in Italia, il suo status passò da prigioniero di guerra a invalido di guerra, non ho mai capito se si trattasse di un’invalidità motoria, che lo faceva zoppicare – qualcosa all’anca che gli impediva di sollevare pesi, di piegarsi troppe volte o anche di stare troppo a lungo seduto – , oppure di un’invalidità nervosa, i nervi che non avevano più retto il carcere, o la guerra, o chissà quale altro orrore; probabilmente si trattava di entrambe le cose, ma quello che so con certezza è che si vergognava di essere un invalido di guerra, di ricevere una pensione, di non poter più lavorare, e un’altra cosa che so con certezza di lui è che odiava l’ingiustizia del mondo, non in una maniera nobile (se è mai esistita), odiava quello che il mondo gli aveva fatto prima, durante e dopo la guerra, lo so con certezza perché in quella foto, la foto in cui è con le braccia dietro la schiena – o parallele al torso, non ricordo bene –, in piedi sul pianerottolo d’entrata della casa del paese, in montagna, quella costruita da suo nonno (il cancello di ferro, tre scalini, il pianerottolo, lo scalino della soglia del portone), ha lo stesso sguardo che ho io di fronte all’ingiustizia del mondo (o alle rovine del mondo), con la differenza che il suo era l’odio dei calpestati, un odio autentico e senza fine: io guardo all’ingiustizia del mondo, e alle sue rovine, come facevano gli dèi antichi (dèi che in realtà erano uomini, uomini incredibilmente crudeli, dèi che erano meno che uomini, che avevano perso l’anima in cambio di un potere demoniaco, il potere di distruggere, quel genere di potere che non possiedi, ma che ti possiede), io guardo all’ingiustizia del mondo, e alle rovine del mondo, con un odio che dura un attimo, e poi si trasforma in disgusto, e poi in accettazione, e quando il ciclo ricomincia, so che potrebbe essere l’ultima volta (perché non c’è progresso, non c’è evoluzione in me), so che prima o poi prevarrà l’accettazione e, allora il potere demoniaco scenderà su di me e io prenderò a ridere con gli altri diavoli dell’inferno, gli dèi antichi, i nostri padroni, i nostri ributtanti re, e come loro dal potere demoniaco verrò divorato.