Il matrimonio di Motherman e Silowsky era fondato sul rancore. La Piccola Boo Boo assorbiva tutti i colpi sferrati, e dal derma emergevano lividi.
«Che cazzo hai fatto alla bambina?»
«Che cazzo ho fatto io alla bambina?»
Ogni mattina in cucina andava così, e un nuovo livido erompeva viola e marrone sulla bambina, come le esplosioni di mele selvatiche che insozzavano il vialetto in cemento che saliva verso la casa.
La bimbetta nel suo seggiolone ascoltava attenta succhiando un moncherino di carota, oppure afferrando una manata di finta polpa di granchio, spiaccicandosela sui capelli. Le palpebre della bambina sbattevano con un suono argentino che nessuno sentiva.
Silowsky, lavando le macchie di carne dai piatti della sera prima, diceva «Adesso chiamo i servizi sociali». Poi chiudeva gli occhi e toglieva le mani bagnate dal lavandino, fingendo di stringerle attorno al collo per strangolarsi.
«Buona fortuna, a farti carico del mutuo senza di me» rispondeva Motherman, senza alzare lo sguardo dalla poltrona, dando le spalle a sua moglie, rifiutando di offrirle anche solo il profilo.
Lo sguardo di Motherman rimaneva fisso sulla collezione di chiodi davanti a lui sul tavolo. Il tosaerba li sferragliava per emersione dal prato fin da quando lui e la consorte avevano messo piede in quella casa. Motherman teneva i chiodi nel portico, in buste della spazzatura eternamente cariche. Amava tirarli fuori ogni mattina e frugarli col pane tostato, raggruppandoli per tipo e per uso.
C’erano chiodi tondi in metallo per lavori generici e chiodini per riparazioni veloci. Chiodi senza testa per il legno, chiodi in rame a testa piana per i tetti, chiodi a gruppino per le giunzioni e ganci per fissare la parte inferiore delle tegole. C’erano chiodi a torsione quadrati e chiodi anulari, viti per cartongesso e grimaldelli, e perfino delle puntine da disegno piegate. Questi erano i più moderni, ma ce n’erano anche di antichi: chiodi di legno marci per pali e travi, chiodi dalla testa rotonda forgiati a mano, buoni per ogni diavoleria, esemplari in rame e in bronzo che provenivano dai transatlantici, rivetti a cupola per cupi vagoni di treno, e lunghi cosetti in ferro usati per una cosa sola: fissare il coperchio delle bare prima di seppellire i defunti.
Per Motherman questi chiodi erano tesori riemersi. Erano le vene di rubini e ruggine delle vite passate del suo pezzo di terra. La sua mente, a quel tavolo da colazione disegnava verande sommerse da epiche tempeste. Ricomponeva le prue di navi da spezie perdute in remoti tifoni. Evocava bande di pionieri perduti che spaccavano a colpi d’ascia barili da bruciare in falò disperati. Si doleva per giovani vagabondi che lanciavano bauli nuziali giù dai treni per fare spazio a un sonno tremolante. Motherman pensava anche alle bare, quelle estreme culle per deboli. O, piuttosto, cercava di non pensare alle bare, ma le sentiva sempre vicine. Il suo prato era un cimitero, questo dicevano i chiodi. Ovunque si trovino cosetti di ferro, si troveranno presto anche delle ossa.
Tornando alla bambina, a quanto pareva i lividi non le facevano male. Motherman non se lo sapeva spiegare. Era ossessionato da questo pensiero, quando non era distratto dai chiodi. Allibiva sul serio. Che cazzo stava facendo quella, alla bambina? Ogni volta che poteva, Motherman esaminava il corpo della bimba, tastava i punti dolenti, affondava il pollice nella carne polposa, scavando alla ricerca di una smorfia o di un lamento. Ma nulla turbava la piccola. Quando Silowsky passava il pomeriggio fuori, a consegnare polpettoni, Motherman premeva più forte per tirare fuori il bianco da ogni macchia scura, cercando di provocare un grido. Ma la bimbetta ridacchiava e basta, pensando che tutto quello stuzzicare fosse un gioco. Motherman di notte veniva spesso svegliato dagli echi allucinatori di quei lieti suoni infantili, e da una pressione al petto che sembrava la stretta del pugno di un bambino.
Silowsky, meno diretta, più pragmatica nell’approccio, usava altri metodi per studiare i lividi. Quando Motherman era fuori a tosare l’erba o nel vialetto a litigare col furgone, Silowsky chiudeva le tendine della cucina e praticava una sorveglianza negligente: non reggendo il seggiolone su cui la bambina si arrampicava, non coprendo le prese elettriche vicino alle macchie d’acqua sul piastrellato, lasciando un coltello incustodito su un pouf, o spargendo sul divano oggetti ingeribili. Piccoli incidenti accadevano, come previsto, ma fino a quel momento nessuno degli esperimenti di Silowsky aveva dato frutti. Non c’era caduta, urto, taglio o conato che avesse lasciato un segno sulla maledetta creatura. La bambina stava sempre bene, faceva paura per quanto era incolume.
E poi non piangeva mai.
Perché cazzo non ha pianto, la bambina? Questo era il pensiero che a Silowsky faceva strappare i capelli nel bagno, finché il suo riflesso non si sbavava. E andava avanti ogni sera dopo che il vicinato si era addormentato: Silowsky in un acquoso colloquio con sé stessa, sceglieva il dolore per tirare fuori le lacrime.
Il mattino seguente la malconcia madre si svegliava, lo scalpo indolenzito dall’ansia, il collo irrigidito dal disprezzo, la bocca sporca di sogni putrefatti. Sprofondava nella vestaglia macchiata, andava come in trance nella camera della bambina, calpestava un oggetto ingeribile, malediceva il suo corpo per tutto ciò che sentiva, incolpava suo marito per tutta la sofferenza che la vita recava, poi si chinava sulla culla per esaminare la prole. E ci trovava la bambina, che con gli occhi ridenti seguiva la rotazione dei barattoli di un telefono a spago, e con la bocca farfugliava in un linguaggio infantile certe cantilene gioiose. L’atteggiamento complessivo e l’enunciazione cumulativa della Piccola Boo Boo rivelavano che era, senz’ombra di dubbio, la bimba più felice del mondo.
Troppo felice.
E ogni mattina eccolo là: un livido scolorito su una parte di quel corpicino che non aveva alcuna ragione di essere lesa.
I litigi in cucina, di giorno in giorno, potevano variare, ma non di molto. «Che cazzo hai fatto alla bambina» era seguito da minacce del tipo «Adesso chiamo i servizi sociali», «Adesso chiamo la polizia» oppure «Adesso chiamo tua madre». O questo, o qualcosa a proposito del mutuo o del matrimonio o della manipolazione o del bere o degli sporchi giochetti o delle bugie o del Fallimento con la F maiuscola. Quando finivano le parole, Silowsky prendeva a fissarsi le mani screpolate dal sapone e immaginava nel dettaglio di inchiodare Motherman al tavolo della cucina mediante quei suoi lembi di carne in eccesso. Si figurava di torturarlo con un oggetto contundente, di scavare con un cucchiaio nei suoi piccoli organi finché non ne fossero uscite delle risposte. Non avrebbe provato alcuna pietà per quell’uomo che stava certamente maltrattando la sua bambina.
Motherman se ne stava a capo chino per tutto il tempo, studiando i chiodi, cercando di non pensare ai cadaveri. Ma ogni momento di più non riusciva a pensare ad altro che al contenuto delle bare sepolte sotto l’erba. Pensava alla decomposizione, a come il legno non potesse impedire i cicli naturali dei solidi che diventano liquidi che diventano gas. A come dentro la cassa tutto fosse movimento, secrezione, liquefazione di un corpo immobile, a come si staccassero i denti e le unghie. Ma cosa succede ai capelli? Motherman era perplesso. Immaginava il volto di Silowsky come nient’altro che ossa, orbite scure e frangetta pettinata di fresco. Era quasi più bella così: un essere luminoso senza pelle. Ma Motherman si fermava sempre lì. Cacciando tutto fuori dalla propria mente, disponeva cosetto di ferro dopo cosetto di ferro sul tavolo fino a formare un mandala sbilenco. Non importava in che direzione il disegno curvasse, i chiodi erano sempre dritti. Motherman sapeva che puntavano tutti a una cosa sola: si sarebbe dovuto mettere a scavare.
«Non dimenticarti della bambina» disse Silowsky una mattina, con i polpettoni avvolti nell’alluminio, in certe buste di plastica che le penzolavano dai gomiti. Stava in piedi nel vialetto, a prepararsi per i suoi giri di consegne, sfregando la scarpa avanti e indietro su un gradino del portico per togliere i pezzi di mela selvatica. Motherman, immerso fino alla vita nelle viscere del furgone, disse «Sì» senza alzare lo sguardo. La Piccola Boo Boo, vestita solo di un costume da bagno, stava seduta sull’erba e giocava allegramente con un bambolotto pelato. L’ultima eruzione era una bruciatura-ablazione che le attraversava l’intera guancia.
Silowsky guardò sua figlia, poi non riuscì più a guardare sua figlia, poi si buttò nella sua berlina come se tutto il mondo le facesse male. Il sole era troppo caldo, la macchina puzzava di ketchup, la strada suburbana si mostrava per quello che era: un vicolo cieco, un luogo del nulla, un’area disastrata. Qualunque cosa lui stia facendo alla bambina, deve finire. Per Silowsky queste parole non erano nuove, ma stavolta erano impiastricciate di uno strano e crescente coraggio. Non importavano i dettagli, vendetta sarebbe stata fatta. Silowsky guardò i suoi occhi nel retrovisore, vide del piacere nelle loro profondità e fece un patto con sé stessa. Quella notte mentre lui dormiva gli avrebbe piazzato un cuscino in faccia, ci sarebbe salita con le ginocchia, avrebbe premuto con tutto il peso del corpo sui suoi buchi per respirare e sarebbe rimasta ferma anche se lui si fosse dimenato. Poi lei e la bambina avrebbero preso un aereo per qualche posto tropicale.
Ma Motherman fu forse il più determinato dei due. O almeno il più rapido. Andata via la moglie balzò via dal furgone come uno sotto attacco interno. Afferrò la pala dal garage e andò a stralciare la vena di metallo nel suo giardino sul retro. La bambina se la caverà.
Motherman aveva adocchiato un punto nell’erba già da qualche settimana. Il tosaerba-bacchetta-da-rabdomante aveva vibrato con una certezza che poteva significare soltanto «Qui». Qui giace la piaga della tua vita familiare. Qui crescono le radici della tua rabbia. Qui c’è il tuo orrore suburbano, lo specchio con cui confrontarti, la tua vita in piena putrefazione. Segnato con un cosetto di ferro lungo e grigio, fu in quel punto che Motherman scavò.
Sola nel portico, la Piccola Boo Boo prese in braccio la sua bambola, sentì un fremito lungo la pelle e guardò le nuvole produrre tinte scure sopra la testa.
Certe scene del crimine si sviscerano meglio attraverso un diorama. Il diorama forense è una sorta di casa delle bambole, dove ogni prova del crimine viene miniaturizzata. Lana e plastica sostituiscono la carne.
Piove. La portiera aperta di un furgone giocattolo nel vialetto oscilla leggermente nel vento. La luce della cabina del guidatore è un tenue bagliore nella foschia. Silowsky – ora una soffice bambolina con qualche chiazza di capelli e delle rughe di preoccupazione disegnate a pennarello – si avvicina alla casa con delle buste di plastica appallottolate in pugno. Un costume da bagno, scurito dalle mele selvatiche e dall’erba, assorbe acqua dal cielo. Non fate caso al fatto che è un costume a grandezza naturale, enorme in confronto al diorama. Siamo nel mondo della Piccola Boo Boo adesso.
La bambola Silowsky strofina le scarpe sullo zerbino con una torsione dei fianchi, che a questa grandezza è un’oscillazione di tutto il corpo. Infila la chiave nella toppa del portone e la luce del furgone sfarfalla. È un’interferenza elettromagnetica, un monito, una batteria certamente morta. Silowsky si rende conto che la porta d’ingresso è già aperta.
«Sono a casa» dice al salotto vuoto, alla mini ciotola di cereali ribaltata con cucchiaio e poltiglia grumosa sul divano, agli oggetti ingeribili che infestano il tappeto, misere scintille di glitter. Una rivista di settore che tratta di tecnica edilizia con tronchi in legno fa bella mostra di sé sulla poltrona reclinabile, col poggiapiedi inceppato a metà, né aperto né chiuso. Un minuscolo coltello da cucina sul tavolino affianca un telecomando piccolissimo.
«C’è nessuno?» dice Silowsky, entrando, librandosi nella stanza, guardando alla cucina attraverso il salotto, vedendo un elaborato mandala di spilli che rappresentano i chiodi sul tavolo di cucina. La porta sul retro è aperta, ma la zanzariera logora è chiusa.
La testa e il busto di lana di Silowsky si torcono avanti e indietro, il suo corpo di bambola attraversa il salotto, la cucina, alla ricerca di Motherman e della bambina. Nel lavandino, impilato su un piatto con briciole incrostate e brandelli di formaggio fuso, c’è un piccolissimo bicchiere di succo bevuto a metà. Silowsky apre la zanzariera, esce nel cortile sul retro.
La buca che trova nel prato ha grossomodo la forma e la dimensione di una tomba in miniatura. Motherman, prono sulla terra appena accanto, non è né vivo né morto. È semplicemente inerte. Il tosaerba ribaltato risplende nella pioggia, la pala è ancora saldamente stretta nella minuscola mano.
La Piccola Boo Boo, adesso enorme e tutta bagnata, strizza la bambola Silowsky nella mano sinistra e raccoglie la bambola Motherman con la destra. Prende le braccia di Motherman e le avvolge attorno alle spalle di Silowsky. Quelle di Silowsky le avvolge attorno alla vita di Motherman. Poi schiaccia i pupazzi l’uno contro il petto dell’altra e li mette abbracciati dentro la tomba.
«Che cazzo fai?» urlano i genitori alla bambina, ma le loro grida vengono soffocate dalla terra che ricade.
Boo Boo, nuda nella foschia, dà delle tenere pacche sulla terra. Sopra di lei, le nuvole cariche di pioggia si aprono per un momento e un raggio di luce gialla le illumina la pelle.
Traduzione di Agnese Cossu
Titolo originale: The White in Every Dark Spot