Non so esattamente cosa mi trattenne per tutta la notte in quel posto così desolato. A ripensarci oggi, mi rendo conto di quanto tutto fosse inquietante e pieno di potenziali pericoli. Ma la paura e l’eccitazione sono sentimenti molto simili tra loro.
Era una giornata gelida di marzo. La città era in lockdown e alle 22 scattava il coprifuoco. Avevo freddo, mi facevano male gli occhi. Ma soprattutto avevo un disperato bisogno di farmi toccare. Così decisi ad avventurarmi fino a Bijlmer per vederlo.
Mi diede appuntamento alla fermata della metro di Strandvliet. Lo riconobbi non appena mi affacciai dall’alto della scala mobile: un ragazzo alto e magro, sguardo di occhi furbi e neri. Più bello che su Tinder. Mi vide anche lui: feci scivolare la mascherina sul mento e gli sorrisi, ma lui non sorrise. Mi salutò con una voce stranamente acuta e mi fece cenno di seguirlo, i movimenti del corpo disinvolti come il compagno di classe bello e bravo negli sport che si odia e si ama insieme.
Mi feci guidare da quell’ombra incappucciata in un pettine di condominii. Avrei voluto farmi un’idea di lui prima di entrare nel suo appartamento, ma scivolava veloce come la pioggia. Due blocchi più in là, mi fece entrare prima in un cortile interno cosparso di reti e biciclette arrugginite, poi in un palazzo. Continuai a seguirlo, aggrappata a una balaustra gialla e appiccicosa, su per dei gradini ricoperti di mozziconi.
La stanza in cui finalmente entrammo odorava di moquette umida e polvere. A parte un letto Ikea, un divano di pelle logora e una televisione, non c’era arredamento. Solo scatole, sul pavimento, e un orologio sul muro.
Mi versò del vino del Lidl, rosso e refrigerato. Su un tavolino aveva distribuito degli snack: una vaschetta di hummus giallo, una manciata di carote corte e tozze che parevano piccole dita croccanti, e dei cubetti di formaggio dolce. Ci eravamo accovacciati sul divano e io avevo parlato di me, del mio dottorato, dell’essere ad Amsterdam, del Covid. Ma tutto quello che dicevo sembrava ridondante.
Allora smisi di parlare e mi spogliai.
Bijlmer è la versione refurbished di un progetto di città del futuro andato storto. Il suo scheletro originale è un complesso residenziale ultra modernista costruito negli anni ‘60, un’enorme griglia esagonale di grattacieli identici tra loro, collegati da passerelle tubolari in stile East London. Un totale di 31 torri e 13 mila appartamenti costruiti per ospitare la promettente classe lavoratrice della già allora sovraffollata Amsterdam.
Dopo l’indipendenza del Suriname, negli anni ‘70, il governo decise di usare le nuove costruzioni per dare alloggio all’ondata di immigrati provenienti dall’ex colonia – salvo il rispetto di un tetto massimo al numero di Surinamesi che potevano essere collocati nel complesso abitativo, onde evitare il rischio di svalutarlo. Il tetto fu raggiunto in fretta, ma i condominii non furono riempiti altrettanto velocemente. Intanto Amsterdam esplodeva di gente e i Surinamesi rimanevano senza casa. Così questi, a un certo punto, trovarono il modo di entrare dalle finestre delle cucine e chiudersi dentro.
Fu così che Bijlmer, contro la volontà di chi la costruiva, diventava un ghetto volontario in cui trovarono rifugio prima i Surinamesi, poi comunità di omosessuali, e altri immigrati non bianchi. Molti degli occupanti non potevano pagare l’affitto, ma nessuno poteva farci nulla perché chi potenzialmente l’avrebbe potuto pagare, gli olandesi bianchi, lì non ci voleva più stare.
L’architetto a capo del progetto, a un certo punto, uscì dal suo ufficio sbattendo la porta.
Gli appartamenti non erano pagati, le ditte interrompevano la manutenzione, gli ascensori smettevano di funzionare e i palazzi diventavano covi di spaccio e consumo di eroina. La situazione a un certo punto si fece così incontrollabile che l’amministrazione decise che, per estirpare quello che ormai era visto come un cancro urbano, avrebbe raso al suolo gli edifici a colpi di dinamite.
Ma prima della municipality arrivò la mano di Dio. Il 4 ottobre del 1992, un aereo appena decollato da Schipol volò dritto contro uno dei palazzi, trapassandolo da facciata a facciata, redendolo al suolo, uccidendo un numero di persone difficile da precisare dato che la maggior parte di esse era un’ombra senza documenti.
Quello che si dice riguardo a questo evento è a metà tra storia e diceria. Pare che sia un episodio remoto, perché nessuno ne parla, nessuno se ne ricorda.
L’aereo, dicono, trasportava sostanze gassose la cui natura non è mai stata documentata dalle autorità. Qualcuno sostiene che, per anni, gli abitanti del quartiere siano stati affetti da disabilità, malformazioni e malattie croniche conseguenti all’esposizione ai residui tossici. Qualcuno sostiene che lo siano. Ma ogni volta che provo a chiedere informazioni su questa vicenda, ricevo risposte vaghe ed elusive, come se di questa storia non si dovesse parlare, nella parte bianca di Amsterdam.
Intanto a Bijlmer l’edilizia si espande attorno a un recente centro commerciale, con una multisala e una grande Decathlon. Cambia e cresce, sotto una patina di veleno invisibile.
Caddi, con quel ragazzo malinconico, in una sorta di arrendevole complicità. Eravamo entrambi bianchissimi, scarni, con i muscoli sottili e tesi sotto i raggi pallidi della luna. Aveva, sul braccio, una cicatrice identica alla mia, così che per un attimo lo scambiai per il mio.
Due notti dopo ero di nuovo lì. E una terza.
Alle 2 del mattino fumavamo su un piccolo balcone affacciato su un cortile interno, in cui solo si muovevano gli occhi ora bianchi ora rossi dei gatti randagi.
Una mattina uscì di scatto dalle coperte. Rannicchiato ai piedi del letto, mi chiese:
«Why do you keep coming back?»
Effettivamente, tornai a Bijlmer ancora e ancora. Quasi ogni giorno per circa un anno. Ogni volta che le scale automatiche mi sputavano sulla piattaforma grigia della fermata di Strandvliet, mi sembrava un déjà-vu della prima. Era come se il tempo su quella fermata non esistesse: le stagioni non cambiavano l’aspetto del cielo, il freddo non cedeva, le poche persone sparse indossavano le stesse grosse giacche sportive, con i cappucci tirati su.
La fermata di Strandvliet è sospesa in uno spazio geograficamente indefinito. Non è desolata, perché al di là delle ringhiere compaiono, non troppo lontano, palazzi e cavalcavia. Ma anche ciò che da lì è ben visibile pare inesorabilmente lontano. Le architetture sullo sfondo parrebbero un arredamento di cartongesso, se non fosse per l’impressione di star guardando da un punto ancora più periferico, una deviazione.
Da un lato dei binari si scorge il tetto rotondo della Bijlmer Arena. Attorno ad essa, si spargono dei palazzi dalle finestre luccicanti occupati da uffici commerciali. Dall’altro lato, a est, una striscia di murales sbiaditi ricopre un parapetto, oltre al quale si estende ciò che rimane dell’esagono originale. Un lungo susseguirsi di tetti piatti e quadrati che si allungano fino a sfumarsi nel grigio dell’orizzonte.
Dalla fermata della metro non si distingue mai alcun segno di vita proveniente da quegli edifici. Nessuna ombra si muove nelle finestre, o sui balconi. Le facciate delle case rimangono austere e silenziose nel loro squallore, infastidite solo dai corvi e dai gabbiani che le sorvolano in cerca di qualcosa.
Arrivavo a Strandvliet dopo una, due notti, lenti giorni trascorsi indolenti in uno di quei palazzi che dalla metro non riuscivo a distinguere. Guardavo il panorama da quella piattaforma sospesa altrove e immaginavo muoversi, dentro quelle mura di cartone, il corpo che per tutta la notte avevo mescolato al mio. Una persona sofferente da cui andavo a soffrire.
Why do you keep coming back.
Continuai a cercare una risposta a quella domanda nei giorni e nei mesi a venire.
Mi immaginavo quelle stanze farsi più calde, più umane. Portavo una pianta, cucinavo usando erbe fresche e olio buono. Ogni volta tornavo, con una speranza intatta.
Una sera, dal balcone, guardavo un gruppo di gabbiani beccare rifiuti nel cortile di sotto. Accanto, il vicino di casa, un brasiliano sulla quarantina, se ne stava in piedi con le punte delle scarpe allineate sul bordo del marciapiede; molle, oscillava il busto avanti e indietro e sembrava poter cadere da un momento all’altro, mentre fissava qualcosa di invisibile davanti a sé.
Rientrai, con dei movimenti che mi parvero sforzare i muscoli dell’anima, e mi sdraiai sul divano. Lui si avvicinò. Guardandomi sicuro, si sdraiò di fronte a me. Il mio corpo era allora stretto in una fessura, bloccato tra le ossa delle sue articolazioni e lo schienale del divano. Con gli occhi vicinissimi ai miei, mi fissava sereno.
«I am sorry, I am feeling like, something heavy»,
e lui, stringendomi un po’ più forte, «It’s ok, we’ll wait it out».
Scendevamo in strada ad abbaiare. Tornavamo in casa e ci legavamo, come cani, alla spalliera del letto. Mi facevo camminare addosso, sul corpo comprato in saldo in un sex shop. Umiliavo la femmina che mi scivolava sulle curve del culo, che mi usciva dai capezzoli, e ingannavo lui, che credeva a quella pantomima.
Dopo un anno, la sua casa era ancora vuota come l’avevo vista la prima volta, ma io non ci facevo più caso. Avevo rinunciato ai miei tentativi di aggiunta. Mi ero convinta anche io che cercare di abbellire le cose fosse vano e borghese.
Avevo uno sguardo arcigno su tutto. Le giovani madri in cargo bike, i loro figli in giacche North Face; i freelancer chini sui loro Mac, nei Coffee Company; il centro di Amsterdam così patinato e posticcio. Odiavo soprattutto il mondo dell’arte, i ‘creativi’, che non avevano niente da dire. Quei ragazzi smidollati che incontravo alle feste, e non parlavano mai di nulla, se non di quanto fosse dura la vita dello starving artist. Dura sapendo che, alla fine, il babbo avrebbe mandato i soldi da casa. Come quella ragazza, più o meno mia coetanea, di Milano, a cui subaffittai la mia stanza per un’estate. Era venuta a fare un internship in un art-lab, la sua specialità erano le fragranze sperimentali. Durante il suo research stay, aveva creato uno scent all’odore di Auschwitz, mescolando candeggina e aceto. Se ne stava nella città più cara d’Europa senza uno stipendio, e l’affitto me lo pagava sempre in ritardo perché – aveva il coraggio di scrivermi, ogni primo del mese – aspettava l’accredito del bonifico del padre.
Le uniche cose che io avessi mai ricevuto da mio padre erano dei libri usati, una vecchia palla da baseball, e una poesia scritta in biro rossa sul giorno 18 settembre dell’agenda delle Assicurazioni Generali.
Il mio biondo diventava sempre più cenere.
Una mattina passeggiavamo nel Nelson Mandela park. Salimmo su un alto ponte, da cui si vedeva tutto: un prato nebuloso e infinito circondato da cime di cemento a picco sul cielo. Lui mi teneva stretta da dietro mentre guardavo il paesaggio.
Voleva due cose, incompatibili l’una con l’altra: stare con me e morire. Tra le due, pensavo, c’era un limbo, e lì io dovevo portarlo.
Mi presi la responsabilità di diventare polmoni, stomaco, cuore, e pompare tutto il sangue che potevo. Stare sullo stesso piano della morte mi faceva sentire indomita. Ma invece di essermi grato, lui mi puniva.
Col passare del tempo, il sesso lo frustrò. Voleva che venissi con il suo pene dentro, al ritmo dei movimenti suoi. Non me lo disse mai, ma lo intuivo. A volte si faceva insicuro, altre volte troppo violento. Insisteva fino a farmi male. Mi ricopriva le gambe di lividi. Mi scavava con le unghie, come se cercasse qualcosa, un qualche segreto che credeva gli tenessi nascosto dentro la carne.
E poi mi puniva con il silenzio. Non rispondeva al telefono per giorni. Piangeva, quando mi arrabbiavo. Diceva di cadere dentro una spaccatura profonda nel suo letto, e restare bloccato là, per giorni, in un unico infinito istante di dolore.
Senza accorgermene, mi facevo sempre più piccola. Lui diventava la mia ossessione, la mia malattia.
Un pomeriggio, dopo lavoro, andai alla fermata della metro a scoprii che la linea che portava a Strandvliet era stata momentaneamente sospesa per lavori. Tornai sui miei passi. Avrei potuto prendere l’autobus, ma secondo Maps la strada sarebbe stata lunga, con probabili blocchi di traffico per l’orario di punta. Così decisi di andare in bici.
Era una bella di giornata di inizio estate, il momento in cui in Olanda l’equilibrio tra notte e giorno si inverte e il pomeriggio si allunga ignorando la luna alta nel cielo chiaro.
Mi trovai su una ciclabile larga, pulita e nitidamente tratteggiata che costeggiava la campagna, poi passava per strade piene di grandi negozi e serre e magazzini di prodotti per il giardinaggio e il bricolage. Non ero mai arrivata a Bijlmer attraversando quello spazio che la separava dalla città. Ci ero sempre arrivata da dentro: la metro mi iniettava nel suo punto centrale e io ignoravo tutto ciò che la circondava.
Pedalando, mi ritrovai in labirinti di vialetti che percorrevano bucolici quartieri residenziali dove le case erano basse e circondate da giardini curati e simboliche staccionate che ne delineavano il perimetro. C’erano fiori ovunque e aironi, persino gruppi di pappagalli appollaiati sugli alberi. Maps perse le mie tracce e io iniziai a girare a caso, perdendomi, cercando di orientarmi verso sud ma spesso ritrovandomi in bivi già superati.
Era ormai buio quando risbucai sullo stradone per Strandvliet.
Arrivai da lui all’ora di cena.
Lui non era arrabbiato per il ritardo. Anzi, quando entrai mi appoggiò le mani sui fianchi e mi baciò con dolcezza sulle labbra. Spingendo delicatamente la mia fronte con la sua, mi mostrò negli occhi una sincera gratitudine.
La casa era piena di odori di spezie e calore, le stanze inondate della luce seppia del tramonto. L’appartamento si era riempito di oggetti ed era decorato con piante tropicali; nel suo arredamento a basso prezzo ma moderno aveva l’aspetto di un appartamento qualsiasi.
Mi servì un trancio di salmone affumicato e mi propose di andare al cinema. Infatti, aggiunse, a Bijlmer avevano aperto un nuovo multisala, dentro al centro commerciale, accanto alla Decathlon.
Io non ero mai stata al centro commerciale, e mi sembrò un’ottima idea. Tuttavia, tra una cosa e l’altra, finimmo col rimanere a casa.
Ci addormentammo presto quella sera.
Pochi giorni dopo i lavori della metropolitana erano finiti e il collegamento aveva ripreso a funzionare. Ma avevo già smesso di rispondere ai suoi messaggi e non mi tornò nessuna voglia di tornare a Bijlmer.