C’è un sogno ricorrente che invade le mie notti così spesso che gli ho dato un nome: l’ultimo giorno a Roma. I dettagli del sogno cambiano ogni volta ma la struttura è sempre la stessa. Sono a Roma, a volte da solo, a volte con la mia famiglia, e mi rendo conto che questo è l’ultimo giorno di permanenza. Di solito il sogno comincia di mattina: ho tutta la giornata davanti e sono libero di fare qualunque cosa mi piaccia. Di solito, si tratta di giornate fresche e sento di avere davanti a me tutto il tempo del mondo. Ma, quando provo a fare un programma, all’improvviso, mi colpisce il fatto di non aver ancora visitato il Campidoglio. Com’è possibile? Tutti quei giorni nella Città Eterna e ho trascurato di fare omaggio al Caput Mundi?! Che cosa stavo pensando? Il Campidoglio avrebbe dovuto essere la prima cosa da visitare – ma invece l’ho saltato come una pozzanghera. A questo punto subentra l’ansia. C’è ancora tempo? Come potrò arrivarci? La Roma del sogno non è la Roma reale. A volte il Campidoglio è irraggiungibile, barricato dietro un muro, nascosto in un groviglio di strade, ubicato sulla cima di una montagna assurdamente alta. Oppure non c’è abbastanza tempo, non c’è un approccio praticabile – l’orario del volo s’avvicina, mi sono perso attraversando la città grande e caotica, il colle è chiuso, le strade sono chiuse. Inizio a rimproverarmi: sei un babbeo, sei uno stupido. E se non dovessi tornare mai più a Roma? Per il resto della mia vita, rimpiangerei questo fallimento. Sudato, disperato, corro per la città nella speranza che mi si apra una strada.

Quando mi sveglio ho la sensazione di aver perso per sempre l’occasione di scoprire il segreto della vita – o almeno di aver perso la rivelazione del segreto che si nasconde dietro al dispiegarsi della storia, allo scorrere del tempo, alla natura sfuggente del piacere. Il cuore del mondo, il suo nucleo più autentico, era lì e me lo sono lasciato scappare. E perché? Perché non ero cosciente, non ero abbastanza vigile, non ero abbastanza consapevole del fluire del tempo. È stato come andare su un’isola incantata e non vedere il mare. E ora, non soltanto il sogno è finito, ma è anche sfuggita l’occasione di cogliere la verità. Qui a Seattle, ben sveglio e circondato dalle mura troppo familiari di casa mia, mi trovo in una realtà scialba, grigia, rozza, scadente, costruita per crollare presto e senza lasciare alcuna traccia – una realtà cruda e non abbellita dal trascorrere del tempo. Ho avuto, almeno nel sonno, l’opportunità di entrare nel palazzo degli dèi e bere alla fonte di ogni saggezza, ma invece sono rimasto a errare per le strade come un vagabondo. Scemo. Ed ora sono abbandonato ancora qui, sulle nostre rive sgradevoli e spoglie.

Ho fatto questo sogno così tante volte che mi sento sul punto di riuscire a romperne il guscio. La scelta – oppure l’apparizione – del Campidoglio non è casuale. Per me, forse per tutti, il Campidoglio non è soltanto un’altra attrazione turistica – come la Torre Eiffel o il Big Ben o la Statua della Libertà. È una meraviglia, ma non soltanto. È un simbolo – ma non soltanto. Possiede una bellezza senza paragoni tra le piazze di Roma – ma c’è qualcosa di più. Anche se l’antico Tempio di Giove Ottimo Massimo è sparito dalla cima del Campidoglio senza traccia, i dintorni conservano qualcosa della divinità – diciamo un numen. Questo posto è il centro di qualcosa fuori dalla geografia. Rappresenta qualcosa che va al di là della sua storia. Il suo significato sorge dalle rovine, ma trascende i limiti di spazio e materia. Ma cos’è veramente?

Da quarant’anni sono attratto da Roma, fino all’ossessione. E il Campidoglio è al centro di questa ossessione. Se voglio comprendere il posto di Roma nella mia vita e nella mia immaginazione, devo comprendere il Campidoglio. Se voglio spiegare questo sogno ricorrente, un sogno composto da speranza, da ansia, da disperazione, da perdita insondabile, devo rispondere alle domande: perché il Campidoglio? Perché l’ultimo giorno? Perché Roma?

La risposta, lo so, non riguarderà solo l’ultimo giorno ma anche il primo, perché è impossibile capire la fine senza capire il principio. Quindi è logico e naturale cominciare con la mia prima visita alla Città Eterna.

È stata di mia moglie l’idea di andare a Roma per la nostra luna di miele. Ci siamo sposati a New York City, dove abitavamo allora, nel mezzo dell’aprile del 1982. Avevamo entrambi ventinove anni ed abbiamo deciso di fare una festa piuttosto piccola ed informale, mettendo da parte i nostri pochi soldi per il viaggio di nozze. Ho suggerito una luna di miele nelle montagne, lontano lontano dalle strade cattive, da macchine e treni, da frastuono e folle. Una bella settimana di campeggio – come no? Santa pace – tranquillità totale, solitudine ininterrotta: ci potrebbe essere un modo migliore per inaugurare la nostra nuova vita insieme? Ma Kate mi ha riportato in me. Aprile è l’inizio della primavera a New York – in montagna, però, è ancora inverno. Campeggio? – assolutamente no. Santa pace – a cosa serve? Invece ha accennato a Roma. Roma?! Ho provato a sollevare alcune obiezioni – vivevamo già in una città grande, caotica, spesso travolgente, con troppo rumore e troppa gente dappertutto – perché sceglierne un’altra simile?

Ma ha vinto, Kate – non per la prima volta – e il 25 Aprile 1982 alle sei di sera eravamo su un volo di Alitalia per Fiumicino.

Avevo già visto Londra, Parigi, Amsterdam, Vienna – nulla, tuttavia, mi aveva preparato alla stranezza di Roma. Le fontane – le rovine nel mezzo delle strade – il colore ocra degli edifici – gli strappi nel tessuto urbano moderno attraverso i quali appariva il passato profondo: Roma non era affatto uno specchio di New York – non era uno specchio di nulla al di fuori di sé stessa. Abbiamo scelto un albergo a Via Sistina vicino a Piazza di Spagna – un quartiere rovinato oggi dal turismo di massa, ma in quei giorni ancora incantevole, almeno per me. La camera non era un granché, ma non mi dimenticherò mai la vista dalla nostra finestra: a destra si ergeva l’obelisco di Piazza di Spagna; a sinistra, alla fine della strada, si intravedeva qualche campanile; di fronte palazzi nobili dipinti di quest’ocra vivido e strano. Enormi vasi di azalee in piena fioritura erano ammucchiati sulla scalinata come se fossero stati piantati solo per noi. Nel mio ricordo sulla balaustra di un palazzo di fronte c’era un battaglione di statue di marmo, ma ho appena controllato Google Maps e non ho trovato né balaustra né statue sopra i palazzi di Via Sistina. Non importa la realtà: in questi casi la realtà della memoria ha la precedenza sui fatti. Abbiamo fatto l’amore. Abbiamo pranzato in un piccolo ristorante piacevole che non sono mai riuscito a ritrovare (forse è sparito quando hanno aperto la fermata della metropolitana a Spagna, ma nel 1982 la Linea A ancora non ci arrivava). Dopo pranzo, siamo andati a fare una passeggiata senza meta. Forse una passeggiata del genere è possibile soltanto nei sogni, ma ricordo che vagavamo senza una mappa, eppure, riuscivamo a passare per Piazza Navona, Fontana di Trevi, Campo dei Fiori, forse anche Fontana del Tritone: insomma, gran parte dei siti turistici imprescindibili. Non mi ricordo una grande folla, nemmeno alla Fontana di Trevi. Eravamo giovani, pieni d’amore e illusioni e Roma era un sogno – un sogno allo stesso tempo nuovo e antico.

Il nostro era un turismo molto letterario. Abbiamo letto Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. Abbiamo letto Il Fauno di Marmo di Nathaniel Hawthorne. Abbiamo portato con noi, su suggerimento di un’amica molto appassionata di letteratura, The Companion Guide to Rome di Georgina Masson – secondo me, ancora la migliore guida di Roma in inglese. Masson ci ha consigliato di iniziare il nostro tour di Roma al Campidoglio, preferibilmente verso il tramonto quando la luce diverta dorata. Ero vagamente consapevole che Edward Gibbon fosse stato ispirato a scrivere Il Declino e La Caduta dell’Impero Romano nei dintorni del Campidoglio (avevo ragione: ecco in inglese la famosa descrizione dell’origine del suo magnum opus: «It was at Rome on the fifteenth of October 1764, as I sat musing amidst the ruins of the Capitol, while the barefooted fryars were singing Vespers in the temple of Jupiter, that the idea of writing the decline and fall of the City first started to my mind»).

Non mi ricordo molto di questo primo sguardo. Il piedestallo della statua di Marco Aurelio era vuoto – l’originale in bronzo era stato rimosso da qualche tempo ma la copia non era ancora al suo posto. La mancanza dell’imperatore di bronzo era la prima di tante delusioni romane. Non era il tramonto, ma metà mattinata: ogni minuto la luce aumentava, c’era una leggera foschia – più grigia che dorata. Ho provato a sentire le cose che la Masson ci ha consigliato di sentire, ma non ce l’ho fatta. Un posto bello, senza dubbio. Ma il Caput Mundi, il centro del mondo? Non mi sembrava.

Ma nonostante la disillusione, mi ricordo un grande desiderio di sapere e capire tutto: ho visto le file di statue in cima ai palazzi gemelli e mi sono domandato chi fossero – dèi? Eroi? Imperatori? Impossible da dire – e frustrante da non sapere. Mi ha colpito anche la complessità del sito: c’erano, certo, le tre vie d’accesso principali, ma anche le scalinate in fondo alla piazza, diverse uscite che davano sul foro romano, un’altra rampa che scendeva verso via dei Fori Imperiali. Nulla era perfettamente dritto; la simmetria era approssimativa, non esatta. C’era bellezza, ma anche qualcosa di più: un suggerimento di variazione senza fine, di sentieri misteriosi, di passaggi attraverso lo spazio ed anche il tempo.

Lo scrittore Hari Kunzru, contemplando Roma, ha scritto per il magazine americano “Harper’s” questa frase: «You’re aware that the ramshackle city is brimming with life, and also that it’s taking place in the aftermath of something grander; or rather several somethings, millennia of somethings». Questo senso di «the aftermath of something grander» (la consequenza di qualcosa di più grande) è quasi palpabile al Campidoglio, già a prima vista.

Siamo stati forse sei giorni a Roma, e poi siamo andati in Sicilia per una settimana. Il nostro programma era di tornare a Roma per altri due giorni prima della partenza per gli Stati Uniti. Forse è durante questo secondo breve soggiorno che l’idea dell’ultimo giorno a Roma è nata – ed anche la disperazione che circonda quest’idea nei miei sogni. Ormai eravamo un po’ più familiari con la città: sapevamo quali cose ci piacevano – e quali evitare. Mi ricordo una gita al tramonto, dall’Arco di Costantino al Campidoglio. La luce, come ha notato la Masson, era perfetta – ma anche fugace. Poche ore più tardi, la luna di miele sarebbe finita – e con questa, la nostra immersione nella Città Eterna. Volevamo a tutti i costi trattenere qualche sfumatura della luce dorata, l’atmosfera di storia profonda, il senso del passato che irrompe nel presente. Certo, New York è una meraviglia – ma non è Roma.

Siamo partiti e qualche anno più tardi, non dopo questo viaggio, non dopo il secondo e neppure dopo il terzo, dopo il sesto forse, il sogno è cominciato. Non posso spiegarlo, ma in qualche modo ne percepisco il senso. In inglese abbiamo un acronimo “FOMO” – fear of missing out – cioè la paura di perdersi qualcosa. Perdersi il Campidoglio non è soltanto la perdita di un luogo oppure di un’esperienza rinomata – ma forse la perdita stessa del significato. Ciò che mi attira a Roma, forse, è la sensazione che, sebbene tutti noi dobbiamo morire, sebbene la nostra civiltà debba passare come tutte le altre, qualche traccia rimarrà – una fondazione per glorie future come il tempio di Giove era la fondazione per il Campidoglio di Michelangelo. Se qualche traccia rimane, se proviamo a decifrare queste tracce, se riusciamo a ricostruire la mappa della città precedente, come ha provato a fare Raffaello alla fine della sua vita troppe breve, allora il significato durerà. E se il significato perdura, allora cercare, sforzarsi, ottenere, viaggiare non sono futili. Il significato ci sostiene, ci trascina nella profondità del mistero della vita, quel mistero che da nessun parte è così palpabile come a Roma. Sul Campidoglio, questo mistero non è stato e non sarà mai cancellato.

Tornando al sogno: sono sempre riluttante ad assegnare un’interpretazione fissa e facile ai sogni, ma forse perdersi il Campidoglio – dimenticandolo, trascurandolo, non riuscendo a raggiungere le sue vette – vuole dire voltare le spalle al concetto stesso di significato. Da qui il panico crescente alla fine del sogno. Ho avuto l’opportunità di vedere la fonte di tutto ma vi ho rinunciato, e quell’opportunità non tornerà mai più. Da qui il mio amore per Roma: qui, più che in ogni altro posto del mondo, sento la persistenza di significato. Forse il panico del sogno è una scossa elettrica. E forse c’è un messaggio nella cenere: cogli questo momento finché puoi perché non ce ne sarà un altro.